Se errare è umano, allora non c’è nulla di sbagliato.
Errare è alla base del principio dell’apprendimento, è il fondamento dell’evoluzione: provare ripetutamente modalità diverse fino all’individuazione di quella giusta, è il processo che ci permette di progredire.
Siamo animali che procedono per tentativi, nella continua ricerca della soluzione: è questa la nostra natura.
Eppure, per qualche strana ragione, coltiviamo la cultura dell’errore come la mortificazione del nostro essere, una vergogna da evitare, anzi da nascondere: quando sbagliamo viviamo la tragedia del nostro io, il timore di essere individuati e riconosciuti per perdenti, in una società ipocrita che adora la perfezione, la totale assenza di difetti, come se questo fosse possibile.
Infatti, la perfezione non esiste, se non nella percezione individuale, priva di ogni oggettività.
Tuttavia, se accettiamo l’errore, esistono infinite possibilità di miglioramento, fino al raggiungimento di una soddisfazione che possa in qualche modo soddisfare la nostra ambizione, magari per un breve tempo, assimilandola ad una sensazione (temporanea di perfezione). Per questo motivo, quando un atleta stabilisce un primato mondiale, prima o poi decide di tentare di migliorarlo ulteriormente, in quanto della perfezione non vi è mai certezza, come pure la possibilità di migliorarsi non ha confini noti.
Quindi, l’errore e la soluzione sono integrati nello stesso sistema come lo sono il bene e il male, il giorno e la notte: per apprezzare l’uno bisogna saper accettare anche l’altro. Ne consegue che per migliorarsi occorre imparare ad accettare l’idea di sbagliare e vedere i propri errori come un comportamento indispensabile per giungere a soluzioni altrimenti inaccessibili: considerare l’errore come uno strumento formativo fondamentale, irrinunciabile.
Nella vita, è importante spingersi verso i limiti delle proprie capacità, per esplorare e conoscere meglio il vero potenziale che possediamo e utilizzarlo per migliorarci ulteriormente. Questo comporta la possibilità di cadere ma non preclude quella di rialzarsi. E la chiave è proprio questa: dato per scontato che nessuno può restare in un equilibrio eterno, per imparare a rialzarsi bisogna prima cadere, esperienze reciprocamente necessarie e inseparabili.
Nello sport, i vincenti hanno tutti un modello comportamentale simile: accettano l’eventualità di cadere perché ci vedono la scoperta di un limite con cui familiarizzare, affinché diventi talmente abituale da non rappresentare più un ostacolo, bensì una tappa, ovvero la possibilità di rialzarsi con nuove, preziose informazioni con cui progredire ulteriormente. È così che un atleta lima i millesimi o i millimetri di un primato: lavorando sui dettagli invisibili, spingendosi nei paraggi delle attuali possibilità, fino a commettere l’errore necessario per capire cos’altro è ancora possibile fare per andare oltre. E questo vale anche nella vita di tutti i giorni: lo sanno i biologi che devono trovare un antigene, gli archeologi che devono individuare un sito…lo sa pure lo Chef che deve stabilire l’esatto tempo di cottura di una pietanza elaborata.
Progredire richiede impegno, perseveranza e un briciolo di umiltà, fondamentale per apprezzare i propri errori e farne tesoro affinché rappresentino il supporto del tentativo successivo, per non fermarsi, non arrendersi e proseguire alla ricerca della soluzione.
Insomma, mai commettere l’errore di credere che sbagliare sia errato.
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