Molti anni fa, quando ero un giovane manager rampante (o quanto meno credevo di esserlo), lavoravo come funzionario commerciale in una delle maggiori società di gestione del risparmio italiane.

Poiché i nostri fondi comuni di investimento erano distribuiti attraverso una moltitudine di istituti bancari, capitava molto raramente che ricevessimo dei clienti presso la nostra sede. Un giorno mi chiesero di occuparmi di un signore che si era presentato nei nostri uffici e così lo accolsi in una delle sale riunioni disponibili.

Si trattava di un uomo sui settanta anni portati bene, vestito casual ma ben curato: ancora ricordo i capelli bianchi e quel giubbotto di Polo Ralph Lauren,  che gli dava un aria giovanile ma calibrata, senza scadere nell’effetto “vorrei ma non posso”.

Mi presentai con una stretta di mano facendolo accomodare al tavolo, per poi esordire con disinvoltura nel modo più infelice che potessi trovare, dicendo: “allora, mi dica pure il suo problema”.

Il suo volto improvvisamente cambiò espressione, facendosi scuro come se gli avessi insultato a morte l’intero albero genealogico: i suoi occhi si fecero di ghiaccio, facendo precipitare la temperatura della stanza a livelli antartici. Senza che avesse il bisogno di insinuarsi, il dubbio che avessi commesso una clamorosa gaffe era già una monolitica certezza, inevitabile quanto le parole che avrebbe pronunciato con tono perentorio: “Scusi, cosa le fa pensare che io abbia dei problemi ??…Le ho forse detto di avere un problema??!!”…

La mia gaffe era motivata dal fatto che la gente, intrattenendo normalmente i propri rapporti con le banche, le rare volte che veniva da noi era quasi sempre per dei problemi amministrativi che non erano stati capaci di risolvergli allo sportello bancario. Per questo, nella mia “mappa”, uno che veniva da noi era uno che aveva un problema. Era quasi sempre così…purtroppo, “quasi”.

Lo scenario era evidente: ero messo molto male; sapevo che tentare un’arrampicata sugli specchi mi avrebbe ulteriormente scoperto il fianco con esito fatale. Aspettai che concludesse e con un sorriso di circostanza che voleva esprimere la massima cordialità e rispetto, risposi lapidario: “Ha ragione, mi sono espresso veramente male: mi scusi, non volevo irritarla;  in realtà intendevo chiederle cosa potessi fare per lei.”   Questo nuovo approccio si dimostrò molto più produttivo del precedente, dal momento che (con le scuse) rimediava all’onore ed al rispetto violato, riqualificando il mio ruolo al servizio delle sue esigenze. Da quel momento tutto proseguì come avrebbe dovuto, ma un simile errore non l’avrei mai più dimenticato.

Oggi nel mio linguaggio ho sostituito la frase “qual’ è il suo problema?” con  “cosa posso fare per lei?”..”in cosa posso rendermi utile?”…”a cosa devo il piacere di averla qui?”…

Sono tutte frasi che assolvono allo stesso scopo ma che in più rendono l’interlocutore ben disposto, facendolo sentire accolto in modo congruente con le sue aspettative.

Oggi più che mai, posso dire che avere un’esigenza, non vuol dire necessariamente avere un problema e certamente i due termini non sono sinonimi. Semmai, avremo un problema quando non riusciremo a soddisfare un esigenza…sebbene i problemi , per chi li sa osservare da prospettive diverse, rivelino più opportunità di quante non saremmo portati ad aspettarci.

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