Lo scenario è la sala riunioni di una multinazionale degli elettrodomestici. Lo staff commerciale incontra la prestigiosa società di marketing che è venuta ad illustrare i dati di mercato rilevati sui punti vendita. I due giovani relatori, un lui ed una lei, sono pronti ad avvicendarsi nella tanto attesa disquisizione. Inizia  lui, mentre dal proiettore scorre una interminabile serie di grafici e numeri percentuali.. Il Direttore Generale, forte di una grande esperienza ed una formazione in ingegneria, accenna qualche appunto travestito da domanda, senza infierire, quanto basta a far tentennare l’interlocutore per fargli capire che l’auditorio non è proprio beota. Il Dott. X vacilla ma si riprende bene e conclude la propria dissertazione come da manuale per passare la parola alla collega. Non appena questa inizia la propria parte, l’altro, come se improvvisamente si fosse chiuso in una cella d’isolamento a tenuta stagna, comincia a mangiarsi le unghie con la dovizia di un roditore consumato. Resto a guardarlo con lo stupore di chi fatica a credere ai propri occhi, domandandomi come sia possibile assumere dei giovani laureati per mandarli in giro a rappresentare un’azienda senza fornire loro una preparazione adeguata a rappresentare un’istituzione oltre che dei dati. Mi è capitato spesso di osservare simili incongruenze anche su figure di top management: un Country Manager di una primaria banca d’affari, visibilmente in sovrappeso, con la cravatta che era un campionario di sughi pronti e le scarpe più impolverate di un operaio dell’ANAS; l’ultimo top manager con cui ho avuto a che fare in ordine di tempo, era invece incapace di interloquire con chicchessia senza praticarsi l’auto palpazione degli attributi..e non so perché ma anche lui aveva quei 50 kg di troppo. Molti invece quelli colpiti da tic nervosi, tra imprenditori e manager, indistintamente tutti a far ghigni con l’angolo della bocca, a toccarsi il ginocchio, a schiarirsi la voce ogni cinque parole. Quanto sono attente le aziende a questi comportamenti? Ci tengono? Ci leggono qualcosa su cui riflettere? Le aziende sono fatte di persone ma una azienda che si doti di una qualsiasi missione non può permettersi di non studiare una correlabile immagine aziendale cui tutti i dipendenti dovrebbero ispirarsi. Non è soltanto una questione di etichetta, è un fatto di congruenza tra ciò che siamo e ciò che facciamo. Se pensiamo alle mani di un chirurgo o di un pianista, difficilmente le immagineremmo con le dita ingiallite dalla nicotina delle sigarette o con le unghie sporche e certamente non ci aspetteremmo neanche di vedere il nostro meccanico con i bermuda bianchi ed una camicia a fiori. Qualsiasi cosa diciamo o facciamo è qualcosa che comunichiamo agli altri. Perché un imprenditore ricco, che ama vestire sartoriale, usare borse di marca, portare un orologio di lusso, a un certo punto decide di ostentare sulla propria scrivania una Montblanc clamorosamente falsa? Qual’è l’immagine che vorrebbe dare di se stesso? Sono sempre le sfumature a fare la differenza, perché se una vecchia mercedes in ottimo stato di conservazione è vintage, con una fiancata rigata è da zingari. Eppure nelle aziende nessuno insegna ai giovani queste cose, tanto mento a quelli che giovani non lo sono più. Sarebbe bello rifletterci e fare un po’ di coaching mirato ad una maggiore consapevolezza ed una migliore gestione dell’immagine personale, lavorando sulle incongruenze, sulla definizione di uno stile aziendale e manageriale, sui principi di etica e deontologia che a volte diamo superficialmente per scontati, come se la reputazione di un’azienda potesse naturalmente estendersi alla sua popolazione per irradiazione. Si spendono soldi su corsi di formazione che partono dal presupposto che tutti siano uguali, con una stessa educazione, cultura, sensibilità morale, valore intellettuale e ci si preoccupa di dare a tutti le stesse istruzioni, nella stessa modalità stabilita. Poi ci si stupisce se il cliente non ha comprato, indispettito da una nostra frase infelice quanto involontaria, dal momento che presi dall’emotività della trattativa, in realtà volevamo dire tutta un’altra cosa. E’ in questo che l’approccio individuale del coaching può fare la differenza: lavorando sui nostri limiti per renderli sempre più relativi, espandendo le nostre virtù ed imparando a gestirle in funzione della circostanza e degli obiettivi che ci poniamo di raggiungere; imparando l’arte di rimettersi sempre in discussione senza mai dare nulla per scontato; imparando ad ascoltare gli altri e cercando di esprimerci con un linguaggio affine all’interlocutore; domandandoci se ci sentiamo in linea con le aspettative che vorremmo suscitare nel prossimo.

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