Il Coaching per i traumi nello sport giovanile

Oggi voglio parlarvi di come i ragazzi vivono un trauma fisico nel contesto di una pratica sportiva, prendendo spunto da fatti realmente accaduti di recente. Luisella (nome di comodo) è una ragazzina di  13-14 anni che ha raggiunto una buona impostazione tecnica nello sci. Purtroppo in un incidente sulle nevi, subì la frattura di due vertebre e questo brutto evento la rese piuttosto insicura quando le condizioni delle piste diventavano più difficili. Così un giorno mentre rientravamo con tutta la classe dalla lezione di sci, Luisella si scontrò con uno sconosciuto snowbordista che (come ormai purtroppo sempre più spesso accade) non appena rialzato si volatilizzò in un secondo. Luisella aveva impattato la schiena ed era a terra dolorante, in preda al terrore, ripetendo meccanicamente “mi sono rotta..mi sono rotta…”

Conoscevo la sua storia, e sapevo che la sua mente associava quello che era appena successo con tutti i risvolti legati al trauma precedentemente vissuto. Era chiaro che ancora prima di diagnosticare gli effetti del trauma era assolutamente prioritario tranquillizzarla nei confronti di tutte le sue paure. Il primo passo fu liberarla dagli sci e metterla in posizione seduta, appena sdraiata: le stavo inginocchiato alle spalle e la sostenevo abbracciandola, lasciando che si appoggiasse al mio petto. Con questa posizione avevo 3 obiettivi: 1) volevo che si rilassasse decontraendo la muscolatura ; 2) volevo che il contatto fisico la facesse sentire al sicuro; 3) infine, da quella posizione potevo parlarle all’orecchio con tono caldo e rassicurante Raggiunto il primo scopo, ovvero tranquillizzarla, il secondo passo fu capire se vi fosse stato un danno fisico e di quale entità. Attenzione, la PNL ci insegna che una domanda posta male può indurre , inconsapevolmente, false risposte.  Apro una parentesi: se un bambino vi dicesse di avere un dolore e voi gli chiedeste se si trattasse della pancia,  lo indurreste a rispondere che gli fa male la pancia anche se il disagio dichiarato inizialmente non fosse stato altro che un banale bisogno di attenzione.  Domande aperte come “cosa senti?”..”dove lo senti?..” costringono il piccolo interlocutore ad esplorarsi (ed a volte a contraddirsi) per poi fornire indicazioni sempre più genuine ed attendibili.Chiusa parentesi. La cassa toracica era abbastanza a posto, altrimenti appoggiandosi a me la compressione le avrebbe acuito il dolore.  Le chiesi se si sentisse più tranquilla (affermativo) e la rassicurai sul fatto che nessuno l’avrebbe portata via da me, poiché le sue paure erano di rivivere il trasporto in ambulanza e tutte le relative vicende successive. Chiesi dove sentisse dolore: la spalla le faceva molto male ma l’articolazione era in sede e riusciva ad articolarla, per cui non sembrava affatto compromessa. La feci concentrare sulla mia voce e la indussi a respirare lentamente e profondamente, distraendola progressivamente dal dolore e dal contesto. Le raccontai che se avesse avuto una sola costola crinata non avrebbe potuto respirare così profondamente. Le spiegai che il dolore era causato da una contrazione involontaria della muscolatura, “offesa” dall’urto e che per la stessa ragione l’articolazione della spalla funzionava al prezzo di qualche fitta.  Insomma, le resi visibile il bicchiere mezzo pieno con argomenti comprensibili e condivisibili. Nel frattempo erano anche arrivati due carabinieri del pronto soccorso ma capirono che la situazione era sotto controllo e si limitarono a dichiarare tutta la loro disponibilità. Ristabilita la calma ed assodata una contusione scapolo omerale senza danni funzionali, chiesi a Luisella cosa volesse fare e la risposta fu: “…sciare”. Le dissi che era una “tosta” e chiesi alla classe di accoglierla con un caloroso applauso di ben tornata nel gruppo. La ragazzina aveva vinto i suoi fantasmi ed aveva trovato il coraggio per divertirsi ancora più di prima. Analizziamo ora i fatti dal punto di vista del coaching: La ragazzina era visibilmente terrorizzata: respirazione accelerata, tono della voce tremolante, le parole esprimevano la visione di uno scenario negativo già vissuto: la ferita psicologica superava di gran lunga quella fisica. Di fronte a questo contesto era abbastanza ovvio dare priorità allo stato emotivo a cui subordinare tutte le verifiche di natura fisica. Quello che prima di ogni altra cosa ho fatto, è stato creare le condizioni ambientali favorevoli per tranquillizzare la persona, distogliendola dal contesto che l’affliggeva. Per fare questo mi sono avvalso del linguaggio del corpo, sostenendola e proteggendola fisicamente da qualsiasi ulteriore evento materiale possibile; mi sono avvalso del linguaggio verbale per tranquillizzarla ed indurla a concentrarsi sulla sua respirazione, distogliendola dal suo immaginario negativo. Inoltre, la posizione fisica che avevo assunto nei suoi confronti (la sostenevo da dietro, spalle alla pista, fasciandole il torace con le mie braccia) era ottimale per allinearsi alla sua fisiologia  (sentire il ritmo respiratorio, percepire l’emotività) ed indurla a tranquillizzarsi parlandole ad un orecchio con tono caldo e fermo.  Anche da un punto di vista psico-geografico, quando la voce proviene da un lato, giunge con una modalità non invasiva, assumendo una valenza di “consiglio”, di suggerimento, per cui si pone meglio di quanto non possa fare da una posizione frontale (più autoritaria). Se poi come in questo caso la voce ha una componente anche posteriore ( quindi in definitiva, posteriore-laterale) , la percezione di chi ascolta avverrà in modo più profondo (cenestesico). Quello che prima di ogni altra cosa ho fatto, è stato creare le condizioni ambientali favorevoli per tranquillizzare la persona, distogliendola dal contesto che l’affliggeva. In questo modo ho creato i presupposti per favorire tutte le fasi successive. Il feedback: una volta invitata la ragazza a constatare e prendere coscienza delle conseguenze reali dell’accaduto, le ho chiesto di considerare cosa avrebbe voluto fare di conseguenza, ovvero le ho chiesto di prendere una decisione, ovvero l’ho invitata ad agire. La risposta è stata perentoria quanto positiva: sciare. A questo punto voglio solo augurarmi che Luisella abbia aggiornato la sua “mappa” del cosa accade se ci si fa male sciando, sostituendo lo smarrimento e lo scuotimento dell’ambulanza – dottori – ambulatori – lastre etc.. con la presenza rassicurante del suo Maestro di Sci che restandole vicino la aiuta a valutare la situazione per quello che è, per poi decidere consapevolmente il da farsi..ed attuarlo insieme.

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2 Comments

  1. ciao Marco, sono Bianca la mamma di Filippo ………mi avevi incuriosita ed eccomi ad aver letto molto sommariamente tutto quello che ti riguarda (sono al lavoro!). beh ho un unico commento da lasciarti “credo che per un bambino un pò speciale quale filippo( cuore di mamma!) non poteva esserci incontro migliore ” ne era convinto filippo e forse capisco anche io oggi perchè ti aveva eletto… anche tu sei una persona un pò speciale!

    Spero ma non ho dubbi…….che il vostro rapporto maestro- allievo possa continuare, avremo modo di chiacchierare ancora da vicino e se tutto è OK ci rivediamo sulle nevi di roccaraso .
    un abbraccio e forte forte anche da filippo che ormai parla solo della sua discesa in braccio a te con annessa sirena dell’ambulanza!!!!!!!! Bianca

  2. You are very welcome!

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