Esprimere correttamente un gesto atletico per raggiungere un certo risultato dipende da una serie di fattori: dato per assunto un certo bagaglio tecnico (inteso come conoscenza di come vada fatto ciò che andrebbe fatto), diventa fondamentale la capacità di esprimerlo coerentemente con il risultato che dovrebbe produrre. Dico “dovrebbe” in quanto la differenza tra conoscere la tecnica e saperla attuare efficacemente, è la stessa che c’è tra la mera teoria e la cruda pratica: ovvero conoscere l’arte della caccia può anche voler dire morire di fame se l’esperienza è poca e la fortuna pure. E’ quindi evidente quanto l’esercizio sia importante per capitalizzare un bagaglio tecnico adeguato alle aspettative.  Tuttavia la qualità di un gesto è molto più importante della quantità di volte che lo si ripete: paradossalmente eseguire un colpo di tennis 50 volte nel modo sbagliato può solo radicare ulteriormente uno schema motorio inefficiente. Ecco perché l’applicazione della mente nell’esercizio del corpo rappresenta il fattore che fa la differenza nel risultato finale. Per esempio, se pensiamo che un impulso elettrico esterno possa sostituirsi a quello generato dal cervello, come accade con gli attuali elettrostimolatori, commettiamo un banale errore se pensiamo che questo possa aiutare sotto il profilo della performance: lo stimolo artificiale produce sicuramente un effetto tonico e quindi estetico, ma non certo allenante ai fini della performance atletica. Il problema risiede nel fatto che l’impulso naturale del cervello ha notevoli difficoltà a reclutare la totalità delle fibre muscolari disponibili, per cui il potenziale che può esprimere un muscolo è spesso sotto utilizzato…a meno che il cervello non si sforzi di fare del suo meglio esercitandosi a reclutare sempre più fibre muscolari a parità di gesto atletico. Ne deriva quindi che l’elettrostimolatore altro non fa che disabituarci dal comandare efficientemente il sistema muscolo-scheletrico, penalizzando conseguentemente la nostra abilità tecnica. Ecco che quindi arriviamo a capire quanto sia fondamentale l’impegno della mente per esprimere il massimo potenziale che il nostro corpo custodisce tanto gelosamente, da illuderci che non disponibile. E poiché è un vero peccato lasciare inespresse le risorse con le quali potremmo dare un senso ai nostri allenamenti, sarebbe quanto mai auspicabile applicarsi alla ricerca di questo potenziale che è dentro di noi. Per questo l’affiancamento di un Life Coach al classico Allenatore Sportivo deve essere inteso come un intervento complementare e funzionale al lavoro di quest’ultimo. Perché spesso l’inefficienza di un atleta non risiede in un programma di lavoro sbagliato: le sue limitazioni sono generalmente figlie di una scarsa determinazione, di un modo di pensare che non è focalizzato sul risultato, sul volere raggiungere fortissimamente un obiettivo. Così si  pensa di più alla mole che alla qualità del lavoro, trascurando il rapporto virtuoso che queste due componenti sarebbero in grado di offrire. Un Life Coach lavora sul presente dell’atleta per aiutarlo ad andare dove vorrebbe essere domani:  lavora su motivazioni, valori, convinzioni, aspirazioni, cercando di rendere tutto visibile, apprezzabile, qualificabile, affinché sia possibile agire concretamente sul cambiamento che si desidera raggiungere, coerentemente e congruentemente con il contesto in cui tutto ciò deve avvenire. Ci si concentra su ciò che si desidera ottenere piuttosto  che rimpiangere ciò che non si è ottenuto, educando l’atleta a concentrarsi nel “fare bene la cosa giusta”, piuttosto che pensare ad “evitare di sbagliare”. L’approccio del Coaching è per definizione positivo ed reattivo, evitando di proposito tutte le forme di rimpianto e frustrazione, caratterizzate da quegli atteggiamenti passivi in cui il “piangersi addosso” rappresenta la reazione più scontata per affrontare un momento di difficoltà, nel modo più infruttuoso possibile. Nel Coaching, un errore, una limitazione, sono solo riferimenti utili per studiare e costruire strategie mirate ad ovviare, riparare, sistemare e superare quello che si riteneva un problema. Nello sport, il problema è sempre una opportunità per misurarsi, conoscersi meglio, esplorare i propri limiti per crescere e spingersi oltre: un Coach che voglia definirsi tale, è colui il quale è in grado di incoraggiare questo processo ed offrire la sua assistenza affinché quest’ultimo si compia nel modo più naturale (ma non per questo meno difficoltoso o sofferto) possibile. Un Coach capisce cosa sta provando il suo assistito e sa come sostenerlo ed incoraggiarlo affinché possa conseguire gli obiettivi ai quali ambisce: un Coach sa quali “corde” toccare affinché si faciliti il processo di cambiamento a cui si aspira, per crescere ed  evolvere verso l’eccellenza.

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